LA LETTURA
Le cose per cui vivere vale la pena
Esce il libro che raccoglie le storie raccontate dallo scrittore a "Vieni viacon me". Anticipiamo l'introduzione con una personale top ten. Saviano presenterà il libro domani - 2 marzo 2011 - a Milano, alla libreria Feltrinelli di piazza Piemonte alle ore 21 di ROBERTO SAVIANO
Le cose per cui vivere vale la pena
SE il tuo mestiere è scrivere, fare televisione è come cercare di respirare sott'acqua. Non puoi farlo perché non hai le branchie, devi trovare il modo, un modo qualsiasi per non morire soffocato. Quando Fabio Fazio mi incontrò proponendomi di raccontare in televisione storie d'Italia, d'istinto la mia risposta fu sì. Ne ero entusiasta, ma feci solo un lieve cenno con la testa come se a dire sì fosse più il mio corpo che il mio pensiero. Ero lusingato dalla proposta, ma intravedevo molte difficoltà. L'idea era nata dopo che una puntata della trasmissione di Fabio a cui avevo partecipato aveva raggiunto, in prima serata, ascolti molto alti raccontando storie di camorra, di libri e scrittori perseguitati. Ma lavorare a un programma televisivo, costruirlo dal primo all'ultimo minuto, ha per uno scrittore qualcosa di irreale. "Vedrai che riusciremo" mi rispose Fabio, che aveva capito cosa si agitava nella mia testa e voleva in qualche modo tranquillizzarmi. Da quel momento abbiamo condiviso tutto, soddisfazioni e dubbi, timori e rabbia: come è raro che accada, o comunque come a me non era mai successo.
È partita così un'avventura fatta di tensione, tristezza, grande passione, un'avventura che mi ha dato la vertigine e la possibilità davvero di intravedere un sentiero oltre la notte. La notte di questo Paese. Per la dirigenza generale la trasmissione doveva essere una di nicchia, doveva parlare solo a quei pochi (che per me erano già una moltitudine) che avevano seguito
i miei precedenti interventi su Raitre. Ma noi questa volta avevamo in mente qualcosa di diverso. Pensavamo a una trasmissione popolare, una trasmissione che potesse arrivare a un pubblico più vasto. Che fosse racconto e intrattenimento. È questo che ha generato il cortocircuito iniziale, le polemiche sui compensi, i timori politici dell'azienda, i sospetti di una censura preventiva, sotterranea, la netta percezione che si volessero fermare le nostre parole.
Non bisogna essere ingenui nel paragonare questa situazione a quella di paesi dove esiste una censura totale dei mezzi di comunicazione. L'Italia non è l'Iran di Ahmadinejad o la Cuba di Castro, dove ai miei coetanei non è consentito il libero utilizzo di Internet, dove non è concesso a chi vince premi giornalistici internazionali di andarli a ritirare o ad atleti di tornare per l'ultimo saluto a un genitore in fin di vita. L'Italia non è la Cina in espansione che non ammette dissidenza o quello che fu il Cile di Pinochet. Non siamo preda di totalitarismi fascisti. Da noi però il meccanismo censorio è insidioso perché non è immediatamente riconoscibile; il suo obiettivo è porre mille difficoltà alla realizzazione di un progetto, nell'ombra, e poi far parlare i fatti: "Andate male", "Non vi guarda nessuno", "Avete fatto ascolti da terza serata". Alla fine il paradosso di fronte al quale ci siamo trovati è diventato palese: un editore che non avendo la forza per bocciare una trasmissione, fa di tutto per farla andare male, per ridurne al minimo l'audience e costringerla in una nicchia dove non dia più fastidio.
Noi, invece, sognavamo un programma ambizioso, di qualità, con ospiti importanti: un programma destinato a un grande pubblico e capace di raccontare un'Italia che raramente appare in tv. Volevamo parlare della macchina del fango, di mafia e politica, di come funzionano i voti di scambio, delle bugie sul terremoto, di testamento biologico, del business dei rifiuti. Ed era chiaro che a fare paura erano proprio i contenuti della trasmissione. Su quelli, però, nessuno di noi era disposto a trattare: erano espressione della nostra libertà. Il sogno (o l'ambizione) era parlare a quella parte del Paese che in realtà è la più grande, che ha voglia di ridisegnare la nostra terra, di ricostruirla, che ha voglia di dire che non siamo tutti uguali e che la nostra diversità risiede nel saper sbagliare senza essere corrotti, nell'avere debolezze che non comportano ricatti ed estorsioni. Alcune mie ricostruzioni sono state definite "infami". "Per Saviano il Nord è spazzatura", "Per Saviano il Nord è mafioso", hanno scritto e ci hanno addirittura definiti "partito della morte", semplificando al massimo quello che avevo raccontato in trasmissione.
Eppure, nonostante gli attacchi, le persone che ci guardavano da casa non si sono sentite più solo spettatori, isolati ognuno nelle proprie stanze, in platea o davanti al computer. Non ognuno che porta con sé lo sconforto di una storia triste o l'energia vitale di una bella storia. Ma qualcosa che senti si muove, la voglia di capire e di agire, di essere nelle cose. Non volevamo costruire una realtà parallela, ma raccontare come in un teatro greco, dove tutto è parte della vita della polis, dove c'è partecipazione, immedesimazione. Ascoltare un racconto e sentirlo proprio è come ricevere una formula per aggiustare il mondo. E il miracolo di questa strana avventura televisiva sono stati gli ascolti. Si andava a dormire il lunedì certi che il giorno dopo avremmo avuto le solite accuse, di aver fatto un programma visto da pochi, solo per appassionati e schierati. E invece accade qualcosa che non potevamo prevedere, perché mai successo prima. Vieni via con me batte ogni record di ascolti su Raitre. Batte ciò che era impossibile battere: il Grande Fratello, i reality. E accade che i miei lunghi monologhi incassano uno share superiore a quello di Inter-Barcellona in Champions League. Una cosa del genere era imprevista, imprevedibile e ci sconcerta. Io stesso quando me lo dicono non riesco sino in fondo a crederci.
Arrivare a così tante persone ti cambia la vita. Ogni giorno mi giungevano migliaia di lettere e messaggi di persone che mi davano la loro vicinanza, solidarietà. Mi sentivo spesso difeso e abbracciato da una umanità di cui per troppo tempo avevo sottovalutato la forza, la dignità, la passione. Ma accade anche che c'è chi inizia lentamente a detestarti, chi non è stato invitato in trasmissione, chi fa altri programmi e si sente superato o quantomeno messo in ombra. E comprendi quello che mai avresti immaginato: meglio per molti che ci sia un'orrida televisione che giustifichi l'orrido mondo, piuttosto che intravedere un modo per poter trasformare le cose, che metta in crisi ognuno. Ma in quelle ore ciò che mi pervadeva davvero, nonostante le critiche, era sentire in ogni parte di me che attraverso la televisione, strumento che spesso sembra inutile, talvolta considerato una macchina per oscurare le menti, si stava accogliendo una voglia di trasformare, di cambiare, di dire comunque la si pensasse politicamente, che il Paese è diverso da come viene rappresentato, diverso dalla sua classe politica, diverso dal disastro che sta vivendo.
E la sfida iniziale era raccontare questa Italia diversa attraverso elenchi che sarebbero stati l'impalcatura e la grammatica della trasmissione. Un'idea semplice, perché gli elenchi sono contenitori che possono contenere ogni cosa, ogni esperienza, ogni racconto. Per questo la partecipazione del pubblico è stata massima: tutti hanno pensato a un proprio elenco e in trasmissione, tramite Facebook e il sito, ce ne sono arrivati a migliaia. Belli, divertenti, drammatici. E ho pensato alla scena di Manhattan il film di Woody Allen, quando sdraiato sul divano riflette "sull'idea per un racconto sulla gente ammalata, che si crea continuamente problemi inutili e nevrotici perché questo gli impedisce di occuparsi dei più insolubili e terrificanti problemi universali". E come antidoto, Allen pensa a qualcosa di ottimistico, a un elenco delle cose per cui vale la pena vivere. Naturalmente è un espediente, il malato cronico è lui e l'elenco ottimistico serve a lui e solo a lui per sottrarlo ai problemi inutili e nevrotici in cui è imprigionato. Woody Allen cita Groucho Marx, Joe Di Maggio, il secondo movimento della sinfonia Jupiter, Louis Armstrong, L'educazione sentimentale di Flaubert, i film svedesi, Marlon Brando, Frank Sinatra, quelle incredibili mele e pere dipinte da Cezanne, i granchi da Sam Wo e il viso di Tracy. Un elenco leggero che vale più di una guida morale per i perplessi.
Sono da sempre attratto dagli elenchi. Un giorno mi piacerebbe scrivere libri di elenchi. E sono sicuro che l'elenco delle cose per cui vale la pena vivere è un esercizio fondamentale per ricordarsi ciò di cui siamo fatti. Una carta costituente di noi stessi. Mi piacerebbe passare il tempo ad ascoltare cosa scrivono le persone, le loro dieci cose che danno senso alla vita. Mi sarebbe piaciuto poterle leggerle in trasmissione. Ma le parole bisogna sempre saperle risparmiare. Qui, però, ho la carta davanti, lei non si sottrae mai. Purtroppo e per fortuna.
Ecco il mio elenco. Ecco le dieci cose per cui, per me, vale la pena vivere:
1) La mozzarella di bufala aversana.
2) Billy Evans che suona Love Theme
From Spartacus.
3) Portare la persona che più ami
sulla tomba di Raffaello Sanzio
e leggerle l'iscrizione latina
che molti ignorano.
4) Il gol di Maradona del 2 a 0 contro
l'Inghilterra ai mondiali del Mexico
'86.
5) L'Iliade.
6) Bob Marley che canta
Redemption Song ascoltato nelle
cuffie mentre passeggi libero.
7) Tuffarsi ma nel profondo,
dove il mare è mare.
Sognare di tornare a casa dopo
che sei stato costretto a star via
molto, molto tempo.
9) Fare l'amore.
10) Dopo una giornata in cui hanno
raccolto firme contro di te aprire
il computer e trovare una mail
di mio fratello che dice: "Sono fiero
di te".
2011 Roberto Saviano /Agenzia Santachiara
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